Un'introduzione
Pittore che ha amato molto l’Italia, dove si stabilì e operò dopo le avventurose vicende di una vita nomade e irrequieta, Roman Bilinski, polacco, non è stato, sinora, forse ricambiato con eguale amore dagli ambienti artistici e critici italiani. Non gli sono mancati i consensi: ma soprattutto dagli studiosi della sua stessa generazione — quella nata tra il 1890 e l’inizio del secolo, basti citare per rimanere tra colleghi torinesi Emilio Zanzi e Marziano Bernardi, Ugo Pavia e Alberto Rossi o, altrove, Cesare Ghiglione o Virgilio Guzzi — assai più che quelli dei critici attenti alle spericolate e pericolose sperimentazioni delle avanguardie.
Basta uno sguardo alle sue opere per comprenderne il perché: la sua fedeltà a un fondamentale naturalismo e la sua stessa ghiottoneria visiva, cromatica e segnica sembravano porlo contro corrente rispetto alle implicazioni intellettualistiche delle polemiche e della cultura figurativa contemporanea. Pittura semplice, dunque, troppo immediatamente ottica e sensuale, sino al limite di un rischio d’improvvisazione? Forse; ma si sa che sono i problemi apparentemente semplici a rivelare spesso una loro nascosta complessità. La quale, nel caso di Roman Bilinski, può ben essere rappresentata dal contrasto fra questi esiti vitalistici e gli elementi della sua formazione mitteleuropea. Oggi è di moda pronunciare questa parola, ma essa non è una chiave magica che apra ogni porta, non foss’altro perché quella cultura fu fenomeno assai complesso e, in parte, contraddittorio, per cui bisogna ben intendersi quando intendiamo servircene non per cercare, ma credendo di aver trovato una spiegazione a certi problemi.
Uno Slavo, dunque, un Polacco nato a Leopoli (oggi L’viv) educato precocissimo all’arte nella città natale, poi a Cracovia e a Kiev, dapprima scultore, ma sempre più affascinato e preso dalla pittura: solo una buona conoscenza, ben difficile in Italia, del gusto e delle tendenze dominanti nella cultura figurativa delle Accademie russe innanzi la prima guerra mondiale, potrebbe consentire una più approfondita comprensione degli elementi di gusto e di mestiere che presiedettero alla sua prima formazione. Così come forse soltanto egli stesso avrebbe potuto chiarirci il ruolo che i numerosi incontri con artisti e scrittori avvenuti durante le sue peregrinazioni possono avere avuto nel condizionare gli ulteriori sviluppi della sua personalità e del suo lavoro. È credibile tuttavia, come ci si accorge esaminando quanto Bilinski ha prodotto negli ultimi trent’anni, cioè nella fase “italiana”, che la sua Personalità fosse in realtà sin dagli inizi formata e, pur con nuovi svolgimenti, non abbia subito mutamenti essenziali. Quei critici — come Emilio Zanzi — hanno messo la sua opera in rapporto con gli sviluppi tardo ottocenteschi del realismo russo, hanno avuto una giusta intuizione. Infatti sia l’insistita definizione fisionomica del “carattere” nei ritratti maschili o di vecchie, sia l’opposto compiacimento di sottolineare, persino con lezio, l’avvenenza e una compiaciuta grazia nelle figure femminili o infantili, sembrano risentire di quell’ascendenza. Lo stesso Bilinski fa talvolta riferimento al “Liberty”, trionfante al momento della sua giovinezza, ma non se ne riscontrano tracce evidenti nella sua pittura più tarda, e in ogni caso, deve o doveva trattarsi piuttosto delle cadenze che quello stile aveva avuto nel mondo slavo che non in quelle, assai meglio conosciute in Occidente, che esso assunse nel mondo tedesco, perché per quanto Bilinski stesso abbia ricordato i suoi incontri Kokoschka, non sembra di scorgere in lui quel risolversi del Sezessiostil in espressionismo che ne caratterizzò in Austria lo svolgimento. Se influenze di Kokoschka su Bilinski vi furono, debbono essere riportate al momento dei tempestosi paesaggi del pittore austriaco, perché nulla in Bilinski ci ricorda la polemica aggressività nei riguardi della figura umana che caratterizzò la fase propriamente espressionistica del grande pittore. Roman Bilinski ci appare uno spirito troppo sereno, troppo innamorato della natura, troppo rispettoso della bellezza umana per poterlo accostare alla pittura pervasa di angoscia esistenziale dell’espressionismo tedesco. Ci si può chiedere piuttosto se il suo stesso “innamorarsi” dell’Italia e sceglierla come sua residenza definitiva, non abbia risposto a un suo intimo bisogno di trovare un clima naturale e culturale consono al suo ottimismo, alla sua serenità di uomo oltreché di artista, piuttosto che a un’occasionale tappa del suo vagabondare. Certo, la rapidità e la sapidità della pennellata, specie nei paesaggi e nelle nature morte (ma anche nelle figure dove non prevalga l’insistenza fisionomica) possono ben essere accostate alla fattura degli espressionisti, come il suo gusto per gli accesi accostamenti cromatici, ma le parentele si esauriscono in ciò: curiosamente sembra invece prevalere in lui una vena “meridionale”, il gusto festoso e fastoso di accumulare oggetti, quella cascata di fiori e di frutta che gremiscono la tela e la fanno rutilare di concordanze e di dissonanze cromatiche hanno sempre un gusto quasi di trofeo che talvolta ci ricorda cadenze tipicamente mediterranee. Anche quando la sua pittura più irruente, sfiorando il limite dell’improvvisazione, questa irruenza si risolve in un inno alla ricchezza, alla generosità della natura, mai in un accento aggressivo o tragico. La scelta stessa dei luoghi da lui ritratti (Bilinski è un paesista compendiario ma preciso nel figurare i luoghi prescelti, piuttosto, in ciò, “impressionista” che “espressionista”) rivela una ricerca di aspetti sereni, una scelta ottimistica.
Ci troviamo dunque di fronte a una personalità complessa per formazione e per temperamento, ma che può a prima vista apparire semplice, per la stessa freschezza, per l’impeto in qualche modo spensierato del temperamento. È facile cader nell’inganno e soffermarsi soltanto sugli aspetti più appariscenti di questa personalità, e tendere perciò ad escluderla dal più rigoroso e intellettualmente scaltrito percorso della pittura nel nostro secolo. Ma basta passare dalle opere degli anni trenta per esempio “Cucina in Anatolia” (1936) a quelle di un ventennio più tardi, come la sintetica “Natura morta con musciame” (1958) dove la nuda semplicità degli oggetti è resa con così spoglia efficacia, per rendersi conto dell’equivoco. È poi il Bilinski paesista — anzi vedutista, ma togliendo a questo termine ogni connotazione negativa — e tale perché nel paesaggio il pittore, mentre può dar libero corso a quella veemenza, anzi, come è stato talvolta detto, a quella “spavalderia” di tocco che gli è propria, sa aderire all’atmosfera, al clima del luogo rappresentato, alle caratteristiche che lo differenziano da ogni altro luogo con precisione che si vorrebbe dire documentaria. Bilinski ha viaggiato molto, ma dei paesi che ha visto e che lo hanno ispirato ha sempre un ricordo netto e ne restituisce un’immagine precisa e riconoscibile pur nell’irruenza e nel carattere personale, inconfondibile, della resa pittorica. Anche qui è facile scorgere l’evoluzione del suo gusto, confrontando, per esempio un quadro del 1936 come “La trebbiatura” con “La selva” del 1970, evoluzione che riscontriamo anche nelle sue figure, si veda il bellissimo nudo di “Haisha” del 1939, una delle cose sue più saldamente strutturate, in parallelo con il “Nudo” questo sì “espressionistico” del 1965.
Un discorso a sé richiederebbe l’esame di Bilinski ritrattista, a partire dai vari “Autoritratti” nelle diverse età, talvolta costruiti con attenta cura di resa non soltanto fisionomica, altre volte quasi schizzanti con pennellate impazienti, quasi a fissare un fuggevole stato d’animo. E naturalmente quelli in cui è fermato un felice incontro come nel “Thomas Mann e sua figlia Monika”. Sempre uno scavo di caratteri acuto e puntuale, anche quando la rapidità dell’esecuzione lo risolve in un e di febbrile stenografia segnica. E il discorso potrebbe, anzi “dovrebbe” continuare, se lo spazio lo consentisse, per le sculture. Proprio alla scultura Roman Bilinski si era avviato nella giovinezza, ma non è stupefacente che il suo vivissimo temperamento di colorista lo abbia sempre maggiormente fatto appassionare alla pittura. Quel senso panico della natura che gli ha fatto trovare sulle fiorite coste mediterranee il proprio “paese dell’anima”, e che lo ha spinto, anche sul piano della vita privata a cercare in un esuberante circondarsi di pianure e di fiori la propria ideale abitazione, ha impregnato tutta la sua opera d’artista, evidente e accattivante nelle colate di fiori come nelle esuberanti rassegne di oggetti ornamentali, nelle lotte di crostacei, nella quasi trionfale parata di paesi, di cieli, di fogliame. E anche la figura umana è stata per lui un momento di questa appassionata contemplazione della natura e della vita. Momento culminante, ma non distaccato da questa sua panteistica adorazione della natura.
Albino Galvano
