Pensieri e ricordi
34 anni, quasi 35 vissuti assieme possono essere considerati molti, ma in me rimane tuttora, a oltre tre anni dalla sua scomparsa, come una frustrazione per non aver potuto partecipare alla sua gioventù e prima maturità.
Un grande artista, non solo nell’espressione diretta dell’arte — scultura e pittura — ma della vita in sé. Riassumendo un personaggio con la pi maiuscola, un gran signore.
Ci incontrammo nel 1946; aveva 49 anni ma non ne dimostrava più di 30 sia d’aspetto, sia di vitalità.
Non sto a ripetere la storia della sua vita dalle origini, che già comparve in notizie che furono raccolte in un’intervista in un documentario RAI dal giornalista Claudio Capello nel gennaio del 1981. Dirò piuttosto che dovevamo incontrarci, porre assieme fine al turbinio caotico della sua vita precedente a me, dalla Grande Guerra alla Rivoluzione Russa, dall’assassinio del padre alla Seconda Guerra Mondiale con i campi di concentramento e piantare finalmente radici per poter sviluppare in relativa tranquillità il lavoro e scegliere ad un certo punto la pittura come sua espressione principale.
Dipingeva tutti i giorni, anzi dopo la nascita dei figli, dipingeva a lungo fino all’alba e parlavamo. I ricordi affluiscono in me un po’ a caso: spesso ripeteva che «l’ispirazione per l’artista non esiste e non deve esistere, è il lavoro continuativo a portare ad una tecnica sicura che a sua volta produce opere sempre migliori», e ancora: «ricordati che un giorno sarò pittore».
Si considerava più scultore che pittore e questo quando, intorno al ‘58, cambiava decisamente la tavolozza entrando violentemente nel colore; sempre di quel periodo: «Se su dieci pitture riesci ad essere soddisfatto di una o forse due, è già un risultato positivo» (non a caso molte pitture di quel periodo furono da lui distrutte o ridipinte sopra). Alcuni anni dopo gli chiedevo: «Su dieci pitture, oggi, quante ne consideri effettivamente tali?» la risposta era una risata e poi: «Hai buona memoria e sei curiosa; comunque ti rispondo anche se lo sai già: forse solo due non sono davvero pitture».
Dalla convivenza continuata, soprattutto sul suo lavoro, ero diventata osservatrice e mi divertivo a captare le sue espressioni mentre operava. Avevo già notato i suoi occhi e i loro movimenti mentre scolpiva; era straordinario, assumevano un’intensità profonda accentuando la loro forma asiatica — diceva sempre che le incursioni tartare nelle pianure polacche erano state frequenti nei secoli —.
Inizialmente notavo che ciò si verificava solo per la scultura, in seguito ritrovai l’identica espressione anche quando dipingeva acquarelli e ancora più tardi diventò una sua espressione abituale qualunque tecnica adoperasse. Perché? Riflettendo arrivai a queste conclusioni: era la sicurezza e la conseguente velocità acquisite nel lavoro, qualsiasi esso fosse, a dargli questa particolare espressione. Poteva (parlo degli anni 1958-1972) dipingere tre o quattro tele al giorno e in estate o durante qualche gita, poteva ritornare la sera con molti acquarelli.
Avevamo un pied-à-terre a Milano, una mansarda in via Brera, abitata in precedenza da un pittore turco, e anche lì le pitture aumentavano rapidamente tanto da non accorgersi, in tempo utile, che una ventina di acquarelli avevano preso il volo. Questo periodo milanese fu assai utile per lui; era come tuffarsi nella vita artistica di una città viva in tutte le sue manifestazioni e così successivamente per Ginevra e Parigi. Fu il periodo di mostre personali e collettive (la Permanente, di cui era socio e Palazzo Reale, la Promotrice delle Belle Arti di Torino) e di contatti con altri artisti. È dell’epoca il ritratto a Carrà.
A Bordighera ci stavamo soprattutto nel periodo dell’anno quando non era tempo adatto per le mostre, cioè l’estate e sporadicamente fra una mostra e l’altra. Un luogo per lavorare nella natura del suo straordinario giardino che aveva ideato, realizzato e chiamato “La Selva”. Purtroppo Bordighera culturalmente non offriva molto, ma la Francia era a un passo con le Biennali di Mentone (il quadro Hommage à Braque), con le mostre internazionali di Montecarlo e da lì era facile scappare e organizzare mostre a Ginevra e a Parigi.
E intanto dipingeva e disegnava molto, specialmente in sanguigno; dal periodo di scultore gli era rimasta una predilezione per la figura umana. Molti ritratti su ordinazione e no, questi ultimi i più belli, i più rapidi, tutta espressione (se il soggetto ne era fornito) se no appariva il risultato di ciò che non c’era. Forse un giorno gli interessati alla sua arte potrebbero chiedersi come mai, avendo Bilinski scelto di vivere al mare, questo compare così poco nella sua produzione? Posso rispondere dicendo che non amava il mare di Bordighera, non lo considerava pittorico per ché troppo aperto, e mancante totalmente di primi piani che egli ricercava quando dipingeva paesaggi, per dare più profondità alla pittura. Di marine, per lo più acquarelli, ve ne sono, anzi, chissà dove sono adesso, poiché furono acquistate molti anni fa, e rappresentano il Mar Nero e la Riviera di Levante.
Cecè
